Il regolamento Consob sull’Equity Crowdfunding può essere migliorato allaragando la base, facilitando gli investitori e facilitando chi ricerca fondi. E facendo anche riferimento ai casi di successo in Europa, soprattutto UK.
Il dibattito sull’adeguatezza del regolamento italiano sull’equity crowdfuding è iniziato dal giorno della sua pubblicazione nel Luglio 2013 e si è accentuato nei mesi successivi alla luce della prova dei fatti.
Situazione attuale
Il bilancio è sostanzialmente negativo. E’ vero che sono state autorizzate 12 piattaforme, ma di esse, in poco più di un anno, solo 4 sono operative e le “startup innovative” finanziate con successo sono state solamente 4.
I fondi raccolti sono stati in totale €1.3M grazie a 134 investitori – in media 34 per round – che hanno investito ciascuno mediamente €9.750.
In UK, la sola Crowdcube in 4 anni, ha contribuito a finanziare 194 imprese per un totale di £61M, con un numero medio di 104 investitori per round, ciascuno dei quali investe mediamente £3.000.
In UK, quindi, sono una realtà sia il “crowd” (numero di investitori) che il “funding” (totale raccolto e imprese finanziate). In Italia, evidentemente, no.
Tutta colpa del regolamento? Certo che no. Ci sono sicuramente ragioni culturali e anche le piattaforme stesse, forse, possono fare meglio in termini di comunicazione e di ingaggio dei potenziali investitori. Il regolamento, però, e anche molto dell’impianto legislativo a monte, giocano un ruolo assai penalizzante, sia per chi cerca fondi che per coloro che li vogliono investire.
Di base, a mio parere, ci sono degli errori di fondo fatti dal legislatore.
Lo scopo del crowdfunding è di consentire
- al maggior numero possibile di imprese di raccogliere fondi direttamente dal pubblico, riducendo al minimo i costi di intermediazione;
- agli investitori, di sfruttare la “velocità” consentita da internet per poter fare valutazioni ed investire in tempi rapidi e senza cavilli burocratici.
- Naturalmente, il tutto deve essere bilanciato in modo da far sì che l’investitore sia conscio che si tratta di investimenti ad alto rischio e illiquidi.
Allargare le maglie
Il legislatore italiano ha parzialmente disatteso il primo punto in quanto ha limitato l’accesso all’equity crowdfunding alle sole “Startup Innovative” che, ad oggi, sono poco più di 3000. Recentemente, c’è stata un’estensione alle “PMI innovative”, le quali, a detta dello stesso Corbetta del MISE, dovrebbero essere circa 5000. Le PMI italiane sono circa 4 milioni, quindi 8-10.000 sono bruscolini. In UK, oltre alle startup tecnologiche, sono stati finanziati vari tipi di imprese: immobiliare, ristorazione, abbigliamento, distribuzione ecc.
Non tutte le PMI dovrebbero poter essere eleggibili, ma allargare le maglie ad altri settori che non siano solo quelli relativi all’high-tech, per di più limitandoli a società di recente costituzione, porterebbe due grandi vantaggi:
- Chiunque abbia un progetto imprenditoriale con ampie possibilità di crescita potrebbe provare a trovare finanziamenti dal pubblico, al di fuori dei circuiti bancari
- Gli investitori, magari poco preparati o poco sensibili all’high-tech, potrebbero investire in iniziative più “facili” da capire e, magari con ritorni sugli investimenti meno aleatori che, invece, potrebbero portare in tempi brevi a beneficiare, perché no, di divdendi.
Facilitare gli investimenti
In nome del terzo punto (garantire gli investitori), il legislatore e, soprattutto, Consob hanno disatteso il secondo punto: rendere facile la vita agli investitori. L’errore di fondo è che avevano in testa un profilo di investitore completamente utopico e non suffragato dalle esperienze degli altri paesi: la “signora Maria” o, più elegantemente, il “cassettista”. Profilo che in quanto considerato sprovveduto, va tutelato allo spasimo.
In realtà, l’esperienza UK dimostra che l’investimento medio è di £3000 ovvero circa €4000. Non certo un importo da “signora Maria”! Un importo invece che, su una singola iniziativa, potrebbe essere investito da chi ha entrate o patrimonio di rilievo, professionisti, dirigenti, imprenditori. E’ questa, a mio, parere, al di là di ogni demagogia, la vera base dei potenziali investitori in equity crowdfunding. Quelli che potrebbero destinare ad investimenti a rischio una parte non significativa del proprio risparmio e che, d’altro canto, potrebbero invece significativamente contribuire al successo di una campagna di raccolta.
Questo profilo, invece, è ampiamente scoraggiato: per investire più di €500 bisogna compilare un modulo (profilo Mifid), stamparlo, firmarlo e portarlo fisicamente in una banca. Cosa c’entra con Internet? Perché un professionista, un dirigente, un imprenditore, dovrebbe sobbarcarsi una tale trafila per un importo per lui poco significativo rispetto alla sua capacità di investimento?
Ad ulteriore garanzia, Consob, vuole che il 5% della raccolta sia sottoscritto da investitore istituzionale. Ma quale banca è interessata a fare un investimento illiquido di 5-15 mila euro con quello che gli costa la procedura di due-diligence? E poi, all’investitore che cosa importa? Magari lo rassicura di più che ci abbia messo dei soldi un investitore privato o un piccolo fondo riconosciuti come esperti del settore…
In UK, per garantire il risparmiatore, la FCA, l’omologa di Consob, impone due cose molto semplici:
- Prima di investire, l’utente deve rispondere esattamente, UNA SOLA VOLTA, ad un questionario on line: una quindicina domande volte a renderlo consapevole di quanto sia rischioso e illiquido fare l’investimento
- I siti delle piattaforme sono tempestati di messaggi che ribadiscono il concetto
E, inoltre, la FCA consente all’investitore di impegnare i fondi senza passare da un “intermediario finanziario”, come previsto da Consob, ma depositandoli in un escrow account gestito da piattaforme online certificate a livello europeo come GoCardless o MangoPay. Lo stesso avviene anche in Francia, in Spagna, in Olanda, in Svezia…
Perché non consentire lo stesso anche in Italia?
Facilitare chi richiede fondi
La riduzione dei costi di intermediazione è uno dei punti di forza del crowdfunding. In UK si cerca di escludere o almeno limitare i costi della società che vuole finanziarsi spostandoli il più possibile alla fase finale, cioè al momento in cui si è certi che la campagna ha avuto successo. In Italia, invece, la società che si finanzia, prima ancora che la campagna sia pubblicata, deve:
- aprire un conto presso un intermediario finanziario indicato dalla piattaforma (che già trovarne uno, per le povere piattaforme, è un incubo)
- convocare l’assemblea per deliberare l’aumento di capitale
- modificare lo statuto per tener conto di tutta una serie di clausole (peraltro necessarie) che regolamentino l’ingresso, i diritti e la gestione dei nuovi soci
Tutto ciò ha costi amministrativi, legali e notarili non indifferenti oltre a costare in termini di tempo e di sforzi. Costi e sforzi certi a fronte di risultati assolutamente incerti: la campagna, infatti, potrebbe non raggiungere il target e le spese sarebbero state sostenute per niente.
Ora, non sono un giurista, ma credo che ci voglia poco per far sì che nell’equity crowdfunding i costi vengano spostati alla fine del processo. Per esempio, si potrebbe togliere dal regolamento l’obbligo di mostrare lo statuto modificato, sostituendolo con una sintesi puramente descrittiva di come verrà modificato e demandandone invece la reale modifica solo a dopo che la campagna ha avuto successo. I fondi peraltro verrebbero sbloccati solo dopo che il nuovo statuto sia stato sottoposto agli investitori. Così, vedi caso, avviene in UK.
Conclusioni
Il regolamento è stato un bel passo avanti in Italia, rispetto all’inerzia cui siamo abituati. Purtroppo le premesse su cui si è basato non sono adeguate allo strumento. Molti, compreso noi, l’hanno rimarcato subito. I fatti lo stanno dimostrando.
Peraltro, le modifiche da fare non sono “epocali”, sono facilmente implementabili e innestabili sul dispositivo attuale, e si basano sull’osservazione dei casi di successo di Paesi che sono parte della comunità europea.
Credo dunque che si tratti solo di buona volontà. La stessa, a onor del vero, che il Ministero dello Sviluppo Economico ha dimostrato sollecitando suggerimenti organici da parte degli addetti ai lavori.