Il social lending può dare una risposta alla domanda di credito delle PMI non soddisfatta dalle banche (50 miliardi). Ecco 5 punti per accelerare
Secondo il report sul Crowdinvesting del Politecnico di Milano, appena rilasciato, le risorse raccolte a Giugno 2017 attraverso i portali di lending crowdfunding (o social lending, secondo la definizione della Banca D’Italia) ammontano complessivamente a € 88,3 milioni (di cui € 15,0 milioni erogati a imprese), mentre il flusso degli ultimi 12 mesi è stato pari a € 56,6 milioni.
Eppure si tratta ancora di briciole rispetto a un mercato potenziale da almeno 50 miliardi di euro – a tanto ammontano, secondo Kpmg, le esigenze di credito delle nostre PMI a cui le banche non riescono a far fronte.
Come colmare questo impressionante vuoto? L’ufficio studi di BorsadelCredito.it ha pubblicato “I cinque passi per far volare il marketplace lending italiano”, secondo cui è necessario rimuovere i bug, cioè i difetti del mercato domestico che ne impediscono l’espansione.
BorsadelCredito ha individuato cinque elementi che mancano oggi al P2P lending made in Italy, di cui pubblichiamo una sintesi.
Un quadro normativo unitario e preciso
L’unica regola che oggi regola il settore è la sezione IX delle nuove norme sulla raccolta del risparmio da parte dei soggetti non bancari. In questa norma il social lending è definito come “uno strumento attraverso il quale una pluralità di soggetti può richiedere a una pluralità di potenziali finanziatori, tramite piattaforme on-line, fondi rimborsabili per uso personale o per finanziare un progetto.” Oggi le piattaforme possono operare se sono istituto di pagamento ex art. 114 TUB, intermediario finanziario ex art. 106 TUB o istituto di credito. E possono fare da intermediari nelle trattative personalizzate tra imprenditori e singoli finanziatori.
La mancanza di una normativa organica non potrà durare a lungo, visti anche i ritmi di crescita del mercato: una più spiccata chiarezza e completezza nella normativa faranno certamente da propulsore per una maggiore conoscenza e autorevolezza del mercato della finanza alternativa.
Un trattamento fiscale equo
Il reddito di qualsiasi forma di investimento (azioni, fondi, bond corporate ecc.) viene tassato al 26%, con l’unica eccezione dei titoli di Stato che ricevono un trattamento agevolato al 12,5% e dei PIR di recente istituzione, che, poiché sono stati strutturati per aiutare l’economia reale (cosa su cui peraltro il nostro Fabio Allegreni sul sito di AIEC ha espresso forti dubbi), sono del tutto esenti dall’imposizione fiscale.
Il P2P lending invece è tassato ad “aliquota marginale”. Ovvero, il prestatore deve sommare al suo reddito il guadagno che ottiene dalla sua attività di prestito e pagare la relativa aliquota IRPEF, a seconda dello scaglione in cui si posiziona: dal 23% per chi ha reddito sotto i 15mila euro e fino a un esorbitante 43% per chi guadagna più di 75mila euro. Una tassazione fortemente penalizzante e del tutto arbitraria. Tanto più che il governo con la legge di bilancio in cui ha introdotto i PIR ha espresso chiaramente la sua volontà di agevolare chi investe in economia reale. In UK negli strumenti a cui i PIR si sono ispirati, il P2P lending è una classe di investimento a tassazione zero sui redditi che produce.
Più investitori (istituzionali e pubblici)
I fondi di direct lending in Europa hanno erogato 13 miliardi di euro in prestiti alle imprese e hanno una potenza di fuoco di circa 54 miliardi. Le piattaforme come BorsadelCredito.it sono le candidate ideali a ospitare fondi di direct lending, ovvero fondi che eroghino credito all’economia reale e che siano investibili anche da investitori istituzionali.
Ovviamente, anche sui fondi di direct lending il Regno Unito è il faro a cui guardare. E lo è anche da un altro punto di vista: quello degli investimenti pubblici. Il governo UK ha già finanziato con 100 milioni di sterline Funding Circle, che è il leader britannico dei prestiti tra pari alle PMI e il 10% della liquidità di quella piattaforma arriva da fonti pubbliche.
La cooperazione con le banche
In Italia se ne inizia a parlare, ma non ci sono ancora casi concreti di collaborazione P2P lending e banca. Eppure, esistono opinioni forti riguardo alla necessità per le stesse banche di farsi FinTech: solo per citarne alcune, quella di State Street; quella dell’Osservatorio Digital Finance del POLIMI.
Negli Usa, il 72% delle banche locali pianifica qualche forma di cooperazione con in FinTech. E in Gran Bretagna, dallo scorso settembre è stato approvato un referral scheme che prevede che ogni richiesta di finanziamento fatta da una PMi e non gestita dalla banca debba essere segnalata alle piattaforme che possono offrire un servizio alternativo. Anche in questo caso, il legislatore ha in mano le chiavi per dischiudere un mercato.
E se spingessimo per fare di Milano un hub europeo del FinTech?
Con le elezioni dell’8 giugno, in UK è tornato in auge il dibattito sulla fuga della finanza dalla City, una fuga che potrebbe concludersi a Milano, come più volte auspicato da Guido Rosa, il presidente dell’associazione italiana delle banche estere, per esempio qui. Lo ha dichiarato più di recente anche il presidente della Consob Giuseppe Vegas. Per rendere la città più attrattiva per gli investitori esteri è stato presentato in marzo anche un disegno di legge ad hoc. Sicuramente il capoluogo lombardo ha tutte le carte in regola, tra le altre cose per numero e qualità delle startup che qui nascono, per diventare l’hub europeo del FinTech.