Il regolamento italiano dell’equity crowdfunding è stato il primo, ma la sua rigidità ha portato a risultati nettamente inferiori rispetto al sistema inglese. Conviene dunque alle imprese italiane finanziarsi in UK?
Ho già avuto modo ripetutamente di esporre le mie opinioni sui limiti del regolamento Consob dell’equity crowdfunding e su come migliorarlo. In questa breve presentazione preparata per un mio intervento al convegno “Crowd next: capire il crowdfunding e le sue potenzialità per le imprese“, l’ho confrontato con il sistema inglese, dove l’equity crowdfunding è presente da più tempo e dove, inequivocabilmente, ha conseguito un successo enormemente maggiore.
Il vero punto di differenza riguarda a mio parere, il focus su cui si sono rispettivamente concentrati i due ordinamenti: laddove l’italiano si concentra sulla tutela parossistica dell’investitore, mettendo una serie di paletti che, alla fine, lo limitano, l’inglese ha bene chiaro in mente che l’obiettivo è da un lato di consentire al maggior numero di PMI (non solo di startup!) di accedere a forme di finanziamento alternative e, dall’altro, di facilitare la vita all’investitore.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: €111 milioni raccolti nel 2014 in UK e €1,3 raccolti in Italia.
Ciò non vuol dire necessariamente che le startup e le PMI italiane debbano correre in massa a Londra per farsi finanziare, ma, sicuramente in alcuni casi, vale la pena di valutare l’opzione.