Il mercato potenziale dell’equity crowdfunding in Italia potrebbe essere di circa 50 miliardi. Grazie a tutti coloro che pur avendo patrimoni disponibili adeguati, non investono nell’economia reale. Ma il regolamento Consob non aiuta
Investire in piccole società, startup o PMI, che raccolgono attraverso piattaforme di equity crowdfunding è rischioso ma, nel medio termine, offre prospettive di capital gain molto elevate: assomiglia molto a quello che da sempre fanno business angels e venture capital, con la differenza che, grazie al crowdfunding, l’opportunità viene “democratizzata” cioè aperta al crowd e quindi a tutti.
Nel 2014, l’Equity Crowdfunding in UK (€111 milioni raccolti), in Germania (€30 milioni) ma anche in Francia (€25 milioni) ha dimostrato di iniziare ad avere un impatto significativo nel finanziamento del sistema economico. Altro punto fondamentale è che l’investimento medio di ogni investitore è stato più o meno lo stesso dappertutto: 3-5000 euro.
In una mia recente intervista per Crowd4Fund, Marco Bicocchi Pichi, amministratore delegato di Symbid Italia, ha lucidamente analizzato sia il mercato potenziale dell’equity crowdfunding in Italia che il profilo degli investitori potenziali da sollecitare.
Uno studio di ABi-SDA Bocconi ci dice che il 24% dei clienti delle banche ha un patrimonio finanziario medio > €200.000. Entrando più nel dettaglio, Prometeia stima che siano circa 628 mila le famiglie che hanno oltre €500 mila investiti a mezzo Private Banking, per un patrimonio totale investito di quasi 1000 miliardi.
Ragionevolmente, si può ipotizzare che il 5% di questo patrimonio, cioè €50miliardi, possa essere investito in capitale di rischio, almeno in un arco temporale di 3-5 anni. Di conseguenza, anche la fascia più bassa, coloro che hanno un patrimonio compreso tra 0.5 e 1 milione, avrebbero una disponibilità da investire con l’equity crowdfunding di circa 3-5.000€.
Il problema è che le famiglie “blindano” il proprio risparmio, come rilevato da Nomisma, per cui del 54% di famiglie che hanno un profilo adeguato a manifestare una domanda di investimento, ben 3/4 non immette fondi nell’economia reale.
Si tratta quindi di veri e propri “angels inattivi”, che, invece, grazie all’equity crowdfunding, potrebbero accedere facilmente ad investimenti in economia reale, sbloccando così una massa assai considerevole di fondi improduttivi.
Il ruolo delle piattaforme è quello di avvicinare questa domanda inespressa alle nuove opportunità di investimento, selezionando da un lato le iniziative a più alto potenziale di crescita e dall’altro coinvolgendo anche angels e VC, come co-investitori nelle singole campagne. In questo modo, l’investitore “retail” ha un riferimento esperto – il lead investor – rassicurante e quest’ultimo può ripartire meglio il proprio rischio.
Ma, aggiungo io (e non solo io), come ho più volte avuto modo di sostenere, l’attuale regolamento Consob frena gli investitori invece di agevolarli.
L’ultimo decreto legge, l’Investment Compact, approvato meno di un mese fa, ha fatto indubbi passi avanti, risolvendo uno dei limiti cruciali e cioè l’allargamento delle società finanziabili con l’Equity Crowdfunding alle PMI. Il governo, quindi, il suo l’ha fatto. Ora la palla però passa a Consob.
Sintetizzo i punti che ritengo più rilevanti:
- Innalzamento della soglia Mifid.
Abbiamo visto che l’investimento medio in Europa è di 3-5000 euro. In Italia è stato addirittura di 10.000. Ora, per investire più di 500 euro, chi investe deve compilare un modello per profilarsi (MIFID), firmarlo a mano, e consegnarlo fisicamente alla banca indicata dalla piattaforma, dove deve anche aprire un conto. Ma chi gielo fa fare?
Inoltre questo pregiudica investimenti da parte di stranieri che non potrebbero proprio adempiere a questa procedura. Il paradosso è dunque che un italiano può agevolmente p.es. investire in UK ma un Inglese non riesce ad investire in Italia.
La soluzione migliore sarebbe abolire il limite, ma non potendo, almeno alziamolo a 10.000 euro - Affidamento della procedura MIFID alle piattaforme
La profilazione MIFID servirebbe a rendere edotto l’investitore sul fatto che investire in equity di società non quotate è rischioso e illiquido. In realtà, in Italia, serve alla banche per garantire sé stesse rispetto alla possibilità che un cliente faccia loro causa, dicendo che la banca gli ha rifilato un titolo spazzatura (v. tango bonds, Parmalat e quant’altri). Teoricamente, se la mia banca afferma che io sono adatto ad investire a rischio, ogni altra banca dovrebbe accettare questa profilazione. Invece così non è. Ogni banca vuole farsi la propria, per pararsi le terga. E’ per questo che chi investe in equity crowdfunding è costretto a recarsi fisicamente presso una banca che non è la sua, e così gli passa la voglia.
La soluzione è semplice: basta che Consob autorizzi le piattaforme, per chi vuole investire sopra soglia, a fare una e una sola profilazione Mifid, magari con un modulo definito da Consob stessa. E poi, soprattutto, che autorizzi a firmarlo elettronicamente. Così se voglio investire, posso farlo stando seduto alla mia scrivania, come avviene in tutto il resto del mondo. - Abolire la regola che il 5% sia investito da un “investitore professionale”
Affinché un finanziamento si chiuda, almeno il 5% deve essere sottoscritto da un cosiddetto “investitore professionale” cioè fondamentalmente una banca o una sim. Questo dovrebbe garantire meglio l’investitore che dovrebbe esserne rassicurato. A parte che, quale banca o sim ha interesse ad investire qualche spicciolo in un’attività rischiosa a medio/lungo termine (soprattutto con le regole di Basilea 3)? Ma, poi, l’investitore non ha già compilato la Mifid? Non ha la possibilità di leggersi i prospetti? Non sarebbe più “rinfrancato” se vedesse che tra gli investitori ci sono noti Business Angels o Venture Capital che credono nell’iniziativa e che, magari, investono ben più del 5%?
La soluzione: poiché questa regola è ahime definita dalla legge e non da Consob, quest’ultima non la può modificare, ma può bensì derogarla, allargando per esempio la definizione di investitore professionale e facendo pertanto in modo di includere il più possibile chi se ne intende veramente (es business angels e vs) oppure, ancora meglio, fare come hanno appena fatto gli Spagnoli: è considerato investitore accreditato chi guadagna almeno 50.000 euro all’anno o ha un patrimonio investito di almeno 100.000 euro.